Posted on December 29, 2016
Deep Purple “Purple Storm”
Purple Storm – DP 023 Europa. Lato a) Hush/ Kentucky Woman/ Mandrake Root/ Help. Lato b) Wring That Neck/ River Deep Mountain High/Hey Joe – Inglewood, California, USA, 18 Ottobre 1968
Il post è stato corretto dagli errori contenuti, grazie alla benevola collaborazione degli amici Gianni Sernicola ed Alessandro Pomponi, veri cultori dei Deep Purple, ai quali non sono sfuggite le inesattezze che avevo commesso: chiedo perdono!!!!
….Quando i Deep Purple non erano ancora la perfetta macchina da guerra che tutti abbiamo amato con “Made in Japan”….
…piuttosto quando il gruppo era ancora alle prime armi, carico di forza ma non ancora in grado di controllarla a pieno: questo concerto del 1968 è una ottima testimonianza di quanto ho appena detto, infatti si possono ascoltare dei brani che nel tempo sono rapidamente andati a scomparire, sotto la pressione del materiale proveniente dal loro capolavoro “In Rock”, ma che rimangono affascinanti e descrittivi delle enormi potenzialità del gruppo già dalle prime sue uscite; di questo concerto non ho particolari informazioni, si deduce che fu suonato di fronte ad un pubblico abbastanza numeroso e caloroso nei confronti della band, che presentò nella serata quello che era il suo repertorio del momento, cioè cover di brani famosi, interpretati con particolare fantasia e capacità ed alcune loro produzioni, ben riconoscibili per forza e durata. Il lato A inizia con un Deep Classico, Hush, in una bella ed energetica versione, con la voce di Rod Evans in bella evidenza, ed il resto del gruppo abbastanza in linea, forse un pochino sottotono rispetto al loro frontman, probabilmente in quel momento il più consapevole della loro bravura; segue Kentucky Woman, uscito anche come “7, un brano pensato per attirare l’attenzione del pubblico, qui in una esecuzione veloce, leggermente caotica, ma comunque molto interessante: le mani e gli strumenti divengono più caldi e si passa a Mandrake Root, un brano costituito nella classica modalità dei Purple: inizio rombante, parte cantata a tutta forza che introduce almeno un duetto tra le tastiere di Jon Lord e la chitarra di Ritchie Blackmore, costante ripetuta per tutti i pezzi dal vivo più famosi e riusciti della band in tutti i suoi vari Mark (pensate a Child in Time, You Fool no One, The Mule, Strange Kind of Woman), parte vocale a chiudere con veemenza. Il gruppo è ancora leggermente timido, quindi il brano non sfora i 6/7 minuti, veramente pochi in confronto con le versioni interminabili di oltre 25 minuti che verranno pochi anni dopo eseguite in giro per il mondo. Lord è molto più determinato nella sua parte, mentre si può dire di poter ascoltare un Blackmore in versione…..”umile”….cosa quasi del tutto incredibile visto lo sviluppo di eccelsa bravura e ridondante personalità che “l’uomo in nero” ebbe nel giro di pochissimi mesi. Il pezzo termina così come è iniziato, con rudezza ed energia e viene seguito da una cover del brano dei Beatles “Help”, interpretato dai Deep in maniera “psichedelica”, paradossalmente meno rock di quanto i Fab Four avevano fatto nel loro album omonimo: le digressioni dei Purple sono però decisamente interessanti, una maniera totalmente alternativa di interpretare un brano che comunque è rimasto nella storia dei Beatles. Il lato B si apre con un altro dei brani da super assoli, Wring that Neck: solo un paio di anni dopo questo brano verrà allungato sino a 35/40 minuti (!) grazie agli alternati virtuosismi di tastiera e chitarra; in questa serata saranno ben supportati da una molto affiatata base ritmica costituita dal duo Ian Paice e Nick Simper, comunque vale quanto già detto per Mandrake Root, cioè è ancora presente una sorta di riserbo, tale da fermare quella logorrea musicale a circa 7/8 minuti, nei quali si possono però ben distinguere (soprattutto) i riff di Blackmore in fase ancora embrionale ma già molto caratteristici del brano. Di nuovo una cover, questa volta si tratta di un pezzo della coppia Ike & Tina Turner, il loro River Deep Mountain High, sicuramente molto adatto alle doti canore di Evans, come al solito interpretato in maniera molto personalizzata dal gruppo, seguendo comunque lo schema originario, senza farsi prendere la mano da assoli vari. La registrazione chiude con una delle digressioni che la band amava fare nel repertorio classico, vista la formazione musicale di elevato livello del duo Lord/Blackmore, una incursione nel mondo di Richard Strauss, specificatamente nel suo “Also Sprach Zarathustra”, in quei giorni ascoltato dal pubblico cinematografico nell’appena uscito “2001 odissea nello spazio” di Stanley Kubrick, incursione sostenuta a tutto organo Hammond: questo passaggio sfuma in un ulteriore omaggio, il brano finale è infatti Hey Joe di Billy Roberts, reso famoso un anno prima dalla interpretazione fattane da Jimi Hendrix. Il gruppo esce benissimo dal confronto con Hendrix, dando al brano un respiro più ampio ed una più compatta linea melodica. Chissà quale fu la scaletta della serata, con questo brano sicuramente termina il disco, un bel tuffo in un mare Viola…