Posted on June 1, 2017
Allan Holdsworth ” L.A. Country Club, April 1984″
L.A. Country Club April 1984 – Giappone , ETS 2552/53/54/55 – Lato a) Shallow Sea/ Tokyo Dream/ Road Games/ White Line. Lato b) Panic Stations/ Letters of Marque. Lato c) Devil Take the Hindmost/ Home/ Material Real/ Metal Fatigue. Lato d) The Things you See/ Was There?/ Where is One. Live in Los Angeles, USA al Country Club , nel mese di Maggio, non Aprile come indicato nell’inserto, data esatta sconosciuta, dell’anno 1985, non 1984.
Ho atteso che l’eco della triste notizia della scomparsa di questo grande musicista fosse del tutto spento, per dedicargli un ricordo: come per la maggior parte dei virtuosi di qualsiasi strumento, le performance dal vivo ne esaltavano sia le qualità tecniche che quelle emotive ….
…e fortunatamente, qualche previdente ascoltatore ha provveduto a lasciarcene una traccia tangibile tramite questa registrazione, tradotta in vinile dalla casa Giapponese ETS, ovviamente, detto questo, con un livello di rarità intrinseca molto elevato, comunque direi meglio di niente; le scarne note di copertina non forniscono alcuna informazione circa la band, quindi si può solo presumere che la line-up fosse quella dell’album “Metal Fatigue”, con Chad Wackerman alla batteria, Alan Pasqua alle tastiere, Jimmy Johnson al basso, come da commenti in rete si può ragionevolmente posizionare il concerto nel 1985 nel mese di maggio, durante il tour degli States di presentazione del nuovo album. La registrazione è un ottimo audience, con un pubblico assolutamente rispettoso dei brani, tanto da dedicare ad ognuno applausi scroscianti, ma anche da astenersi da fischi e strilli durante le esecuzioni, tutte caratterizzate da un elevata dinamicità sonora, con momenti di potentissimo jazz alternati a passaggi sospesi nell’aria, di estrema delicatezza. L’apertura è con Shallow Sea, dal lp “I.O.U.” introdotta in maniera soft e visionaria, per trasformarsi in una track nervosa e vibrante: è chiaro sin da subito che il resto del gruppo è disposizione del solista, svolge un lavoro impeccabile ma non sovrasta mai le parti di chitarra che invece spadroneggia in tutti i momenti; seguono Tokyo Dream, Road Games e White Line: volano via complesse e veloci, affascinano per la poderosa base ritmica fornita e per le incredibili acrobazie della chitarra di Holdsworth, decisamente in serata di grazia. Il secondo lato offre Letters of Marque, ancora da “I.O.U”. e Panic Stations da “Metal Fatigue”, mini suite più complesse nell’ascolto ma decisamente affascinanti, con una serie di intervalli di batteria inseriti in entrambi i pezzi come a sottolinearne l’appartenenza all’ambito jazzistico più che a quello rock, terreno nel quale gli assoli percussivi sono stati sempre più massivi per durata ed intensità. Il lato tre oltre al primo brano, Devil take the Hindmost, ancora da “Metal Fatigue”, propone anche altri brani presi da “Road Games”, l’album precedente, testimoniando così la continuità artistica di Holdsworth in quel periodo: lo segnalo poiché l’album “Metal Fatigue” a dispetto del titolo, venne etichettato come una incursione in atmosfere “pop”, giudizio direi fuori luogo vista la natura del lp, ma che marcherà questo lavoro in maniera definitiva, tanto che, l’album seguente, “Atavachron”, come a voler recuperare una credibilità jazzistica, vedrà Holdsworth alle prese con la chitarra “Synth-Axe”, una specie di Frankenstein ottenuto tra una chitarra elettrica ed un sintetizzatore, strumento decisamente affascinante ma altrettanto ostico da suonare, si che oltre Holdsworth ben pochi si sono cimentati negli anni nel suo utilizzo. Chiude comunque la facciata Metal Fatigue, ottimo esempio di come quell’album non fosse poi così tanto pop come fu detto al tempo. Il quarto lato è un autostrada sonora, le note corrono veloci, il primo ed il terzo brano provengono da “I.O.U.” e sono decisamente rodati e provati, tanto quanto il secondo, estratto da “Road Games”. L’ascolto vola bene, unica nota critica la rivolgo a chi ha tagliato il master del concerto, con una brusco fine del brano Where is One che lascia l’ascoltatore troppo di colpo: la solita buona sfumatura degli applausi finali avrebbe meglio incorniciata la fine di un ottimo concerto di un grande musicista, oramai consegnato agli archivi ed al ricordo.